Europa con l’elemetto e il nucleare? No, grazie! (2)

Sull’Europa sta spirando un crescente vento di guerra, che si manifesta in modo eclatante nelle esternazioni dei vertici della U.E., ma meno clamorosamente nelle ‘grandi manovre’ nel campo della difesa comune ed in altri ambiti strategici, in vista dell’aspra battaglia per le prossime elezioni del Parlamento europeo. Recentemente, infatti, sono risuonate le allarmanti dichiarazioni della Presidente della Commissione von der Leyen e del Presidente del Consiglio Michel sulla necessità di preparare la guerra per garantire la pace e, in ogni caso, di predisporci comunque ad una “economia di guerra”. Gli ha fatto eco Weber, Presidente del Partito Popolare Europeo, precisando però che: “rafforzare la difesa europea non è in contraddizione col dire che rafforzare le NATO è un pilastro per l’UE”.

E in effetti quel ‘pilastro’, piantato nel cuore del vecchio continente giusto 75 anni fa, non sembra affatto in discussione, anche se l’eventuale rielezione di Trump alla presidenza USA sta mettendo in agitazione i più fedeli soci dell’Alleanza Atlantica – tra cui l’Italia – motivando l’escalation militarista dell’U.E. Per adesso, però, l’esortazione di fondo resta quella sintetizzata dalla formula un po’ mercantile della von der Leyen “spendere meglio, insieme e in modo europeo”, sostanziata in una proposta legislativa (EDIP) che amplia la produzione di munizioni e l’acquisizione di armamenti, confermando in salsa ‘comunitaria’ il preponderante ruolo del complesso militar-industriale.

«Gli Stati membri sono invitati a: procurarsi almeno il 40% delle attrezzature di difesa in modo collaborativo entro il 2030; garantire che, entro il 2030, il valore del commercio della difesa intra-UE rappresenti almeno il 35% del valore del mercato della difesa dell’UE; compiere progressi costanti verso l’acquisizione di almeno il 50% del bilancio per gli appalti della difesa all’interno dell’UE entro il 2030 e del 60% entro il 2035». [1]

Lo sventolare di bandiere ucraine nelle sedi della U.E. e gli appelli al riarmo per difendere la “libertà in gioco” sono dunque solo la foglia di fico che cela maldestramente gli interessi economici dell’industria bellica. Come ci ricordava un articolo di ‘Avvenire’:

«L’escalation in corso – dall’Ucraina a Gaza – ha portato a livelli record la spesa militare: 2.240 miliardi di dollari nel 2022, l’ultimo con rilevazioni ufficiali – i profitti dei colossi delle armi. Per la prima volta, gli investimenti europei hanno superato quelli dei tempi della Guerra fredda». [2]

In un’ottica ecopacifista, inoltre, non sfugge che questa irresponsabile corsa agli armamenti procede di pari passo col tentativo d’un parallelo smantellamento del cosiddetto Green Deal europeo, un pacchetto d’iniziative finalizzato ad avviare l’U.E. verso una transizione verde, per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Un obiettivo largamente cancellato non solo dalla destra, ma anche dalla maggioranza attuale di quel Parlamento.

«Proprio mentre l’Unione europea rinnega le misure principali del Green Deal, boicottato dal Ppe della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, l’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) mette in guardia: “L’Europa è il continente che sta registrando i più rapidi aumenti delle temperature al mondo”. E parla di “interventi urgenti” per evitare che alcuni rischi raggiungano livelli “catastrofici”». [3]

Ma l’invasione di Bruxelles da parte dei trattori agricoli sembra aver spaventato i vertici europei più di quella dei carrarmati russi. Eppre le possibili guerre per l’acqua – in assenza di interventi urgenti sulla crisi climatica – potrebbero rivelarsi devastanti quanto i conflitti armati. Ecco perché 3300 scienziati europei hanno sottoscritto un documento contro le infondate critiche alla Nature Restoration Law, al regolamento sull’uso sostenibile (SUR) ed alla legge sul ripristino della natura (NRL).

Anche in materia di fonti energetiche, i vertici dell’U.E. continuano a spingere in favore dell’inserimento del nucleare tra quelle considerate ‘green’, ritornando sulla decisione contraria precedentemente assunta. Benché si tratti di un tema tuttora divisivo, nello scorso marzo i leader mondiali si sono riuniti a Bruxelles per il primo vertice sull’energia nucleare. Cogliendo al volo l’invito della COP28 di Dubai, hanno provato quindi a riproporre l’uso pacifico ed ‘alternativo’ dell’energia nucleare, sebbene:

«…il nuovo rapporto …dell’Ufficio Europeo dello Ambiente dimostra e argomenta in modo chiaro che per decarbonizzare l’Europa non serve né nuovo nucleare né prolungare oltre misura la vita degli impianti esistenti perché le energie rinnovabili, il risparmio energetico e le opzioni di flessibilità possano efficacemente sostituire l’energia nucleare nel mix energetico dell’UE ». [4]

Sembra chiaro allora che militarismo guerrafondaio e lobbies nucleariste stanno marciando unite sull’Europa. Cerchiamo di non dimenticarlo quando si voterà a giugno!


NOTE

[1] E.C. Press Release, March 5,2024 > https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_24_1321

[2] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/il-profitto-delle-guerre-editoriale

[3]https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/03/12/mentre-lue-rinnega-il-green-deal-lagenzia-europea-dellambiente-certifica-il-disastro-qui-la-temperatura-cresce-piu-che-nel-resto- del-mondo-ora-politiche-forti/7476270/

[4]https://www.wwf.it/pandanews/clima/leuropa-non-ha-bisogno-del-nucleare/

Europa e il toro scatenato (1)

C’è qualcosa di sorprendente, spesso di paradossale, nella scoperta del significato originario delle parole, grazie all’approfondimento della loro etimologia. Prendiamo ad esempio un nome familiare e sempre più mediaticamente ricorrente in questi giorni. Infatti, diciamo ‘Europa’ e pensiamo ad una comunità economica, semmai al parlamento e agli organi esecutivi di quel soggetto politico federale. Un’entità che in teoria dovrebbe corrispondere ad un contesto socio-culturale omogeneo, sebbene tale aspetto sia difficilmente riscontrabile da quando dell’U.E. sono entrate a far parte stati appartenenti all’area baltica, scandinava e slava. Ciò nonostante quando nominiamo l’Europa continuiamo a raffigurarci una confederazione ‘occidentale’ (benché non corrisponda più al vero), atlantica (ma più che altro atlantista) ed ancorata ad una tradizione storica ‘carolingia’ (quindi continentale e sempre meno ‘mediterranea’).

Eppure il paradosso è già nella sua stessa denominazione. Infatti, a chiamarsi Europa, secondo Erodoto, sarebbe stata una giovane principessa fenicia concupita da Zeus che, presentatosi a lei in forma di toro, l’avrebbe rapita e portata a Creta, dando origine alla civiltà minoica. Alla base della tradizione occidentale – e del nome della confederazione che se ne ritiene erede – ci sarebbe dunque… una fenicia, una ragazza cananea (Kan’anim, era il nome originale di quel popolo), pertanto semitica e mediterranea. Benché si tratti solo di un mito, è evidente quanto ciò strida con la visione politica dell’Europa attuale: da sempre filo-atlantica, schierata in favore di Israele e poco sensibile alla tragedia dei Cananei di oggi, cioè i Libanesi, i Siriani ed i Palestinesi.

Nel mitologico rapimento della poveraEuropa da parte del ‘toro scatenato’ Zeus non è difficile leggere un violento processo di occidentalizzazione ed asservimento dei popoli semitici. La stessa furia egemonica che si manifestò in seguito nelle guerre dei Romani contro la potenza navale punico-fenicia nel Mediterraneo. In fondo, la stessa logica geostrategica dell’egemonia militare della NATO nell’area mediterranea, nord africana, balcanica e mediorientale, il cui caposaldo è il Joint Force Command (JFC) che ha sede a Napoli. Tutto ciò, ovviamente, in nome della ‘difesa’ dall’invadenza islamica a sud e russa a est, e sotto la nobile dichiarazione di voler “preservare la pace, la sicurezza e l’integrità territoriale degli Stati membri dell’Alleanza[1].

Ma se la logica imperialista della NATO è evidente, molto meno scontato sarebbe il ruolo subalterno che la nostra non più giovane Europa (forse ancora traumatizzata dal simbolico ‘ratto’ da parte del toro scatenato USA…) si è data non da ora sul piano internazionale. L’illusione di una politica estera autonoma dell’U.E. e di una ‘difesa europea’ alternativa all’Alleanza Atlantica, in effetti, è svanita molto presto. Non solo il giogo indefettibile della nostra appartenenza alla NATO non è mai stato messo in discussione, ma anzi, come si legge sul sito del Consiglio Europeo: “In questo momento critico per la sicurezza euro-atlantica, il partenariato strategico UE-NATO è più solido e pertinente che mai.” [2]. Si continua allora a discutere della ‘difesa comune europea’, ma esclusivamente in chiave aggiuntiva e non sostitutiva dei già onerosi impegni economici assunti dagli stati ‘atlantisti’. Si parla poi sempre più di ‘cooperazione strutturata permanente’ (PESCO [3]), avviata nel 2017 e da 20 anni operativa attraverso l’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), ma non certo in chiave anti o extra NATO. Il suo obiettivo, infatti, è stato così esplicitato: “… pur non creando un esercito dell’UE, l’UE può aiutare i suoi membri a comprare, sviluppare e gestire insieme nuove risorse. Ciò aiuta a risparmiare denaro, consente ai militari di lavorare insieme a stretto contatto e rafforza la NATO”.[4]

Ecco dei dati assai illuminanti:

La spesa militare aggregata dell’UE e dei Paesi europei della NATO ha raggiunto i 346 miliardi di dollari nel 2022, con un aumento dell’1,9% in termini reali rispetto al 2021 e del 29,4% rispetto al punto di minimo del 2014. È quasi quattro volte la spesa della Russia e l’1,65% del PIL totale”. [5]  Si tratta di una situazione già preoccupante, eppure c’è chi vuol  andare oltre in quest’assurda logica militarista e bellicista. Alla recentementeapprovata missione navale UE nel Mar Rosso (denominata non a caso ‘Aspide’…) prenderà parte anche l’Italia, con una ulteriore ed allarmante escalation militare da parte di questa Europa, sempre più…antifenicia, nonostante il proprio evocativo nome.

(*) Pubblicato su “NUOVA VERDE AMBIENTE” – 1/2024, p. 33

NOTE


[1] JFCNP, “Our Mission”, https://jfcnaples.nato.int/

[2] Consiglio dell’U.E., “Cooperazione UE-NATO”, https://www.consilium.europa.eu/it/policies/defence-security/eu-nato-cooperation/

[3] Cfr. https://www.eeas.europa.eu/eeas/permanent-structured-cooperation-pesco-factsheet-0_en

[4] Cfr. https://eda.europa.eu/what-we-do/eda-in-short

[5] RIPD,” La spesa militare europea è nell’interesse dell’umanità?”, https://retepacedisarmo.org/spese-militari/2023/la-spesa-militare-europea-e-nellinteresse-dellumanita/#:~:text=La%20spesa%20militare%20aggregata%20dell,%2C65%25%20del%20PIL%20totale.

Dare nuove gambe alla nonviolenza in cammino.

Mao Valpiana e Daniele Taurino (Mov. Nonviolento)

Ho partecipato sabato 24 febbraio – in rappresentanza del MIR Italia – al XXVII Congresso nazionale del Movimento Nonviolento, che si è tenuto a Roma dal 23 al 25 presso lo Spazio Pubblico- FP CGIL. Il Movimento – fondato nel 1964 da Aldo Capitini – si è riunito, dopo una lunga parentesi dovuta anche al periodo della pandemia, per portare il proprio contributo alla mobilitazione di Europe for Peace contro tutte le guerre, ma soprattutto per fare il punto sullo stato della propria organizzazione e sulle campagne nelle quali è da impegnato, all’interno della Rete Italiana Pace e Disarmo, di cui sta curando la segreteria organizzativa.

Nella serata di venerdì 23 si era già svolto l’incontro pubblico “Verso un’Europa democratica, ecologica, nonviolenta” e diversi interventi (fra cui quello di un dirigente di Legambiente) hanno sottolineato la centralità di un collegamento tra l’impegno per contrastare la crisi ecologica e quello contro le guerre, per il disarmo e per un’alternativa nonviolenta in materia di difesa. È questo, quindi, il primo punto che ho ritenuto opportuno sottolineare nel mio intervento a nome del MIR Italia, affermando che un progetto ecopacifista può e deve diventare uno degli elementi fondamentali di sinergia per opporsi sia all’attuale escalation bellica, sia ai diffusi atteggiamenti ostili verso una vera (e quindi radicale) svolta ecologista.

Il secondo tema-chiave, ribadito fin dal titolo dell’assemblea congressuale (“Obiezione alla guerra, oggi!”), è stato ovviamente quello del rilancio delle tradizionali lotte antimilitariste e nonviolente, per opporsi al progressivo ed allarmante scivolamento verso soluzioni armate ai conflitti, sospesi tra il ritorno a modalità belliche di vecchio stampo (guerre di trincea e di posizione) ed apocalittici scenari quali il ricorso alle armi nucleari e le ‘guerre spaziali’. In particolare, il recupero del concetto stesso e delle potenzialità pratiche di termini come ‘disobbedienza civile’, ‘resistenza alla guerra’ ed ‘obiezione di coscienza’ (fatalmente appannati da 20 anni di disaffezione dall’impegno politico e di sospensione, insieme con la leva obbligatoria, anche del servizio civile dei giovani obiettori antimilitaristi) rappresenta per entrambi i movimenti nonviolenti un’indiscutibile priorità, rinforzata dalla prospettiva più globale di opposizione alla repressione dello stesso diritto di obiettare. In tal senso, la partecipazione del MIR e del MN alla rete promotrice della #ObjectWarCampaignè stata un’eccezionale (sebbene drammatica) occasione per manifestare solidarietà agli obiettori, resistenti e disertori coinvolti nelle più palesi guerre in corso (russi, bielorussi, ucraini, israeliani e palestinesi), costruendo per loro un’efficace rete di protezione e sostegno, ma anche offrendo loro un supporto giudiziario e legislativo a livello internazionale.

Una terza importante questione trattata nel corso degli interventi congressuali è stata la difesa alternativa (non armata, civile, sociale e nonviolenta), che non può che essere (per usare temini gandhiani) l’indispensabile risposta ‘costruttiva’ alla pur necessaria azione ‘ostruttiva’ contro il complesso militare industriale, che genera conflitti armati, svolte autoritarie e militariste ed alimenta un già fiorente commercio di micidiali strumenti di morte, di distruzione e di devastazione ambientale. Anche in questo campo c’è purtroppo da recuperare un bel po’ di anni di mancata o scarsa controinformazione su un secolo di efficaci esperienze di resistenza civile e difesa alternativa, ma anche un ruolo dell’attuale ‘servizio civile universale’ , così da motivare i giovani a diventare protagonisti di una svolta antimilitarista e nonviolenta. Se è vero, come affermava Mao Valpiana, che in questi lunghi anni la nonviolenza, pur non risultando adeguatamente visibile come alternativa, ha comunque continuato a scorrere sotterranea come un ‘fiume carsico’, sembra ormai giunto il momento (oggi!) di farla finalmente riaffiorare, per bonificare con le sue acque di vita una realtà mortifera, desertificata dalla crisi ecologica e devastata dalle guerre.

Pertanto è evidente l’urgenza di interventi formativi che – pur senza la pretesa d’inseguire i giovani, come giustamente affermato dal presidente nazionale del MN – offra loro una serie di opportunità di educazione alla e per la pace, di addestramento alle pratiche e alle tecniche nonviolente e di aggregazione associativa fondata sul protagonismo ma anche sulla maturazione della consapevolezza dell’insostenibilità etica, ecologica, politica e socioeconomica delle soluzioni distruttive ai conflitti Questi infatti vanno opportunamente  riconosciuti e poi trasformati ed affrontati in modo costruttivo. Tutto ciò, ovviamente, implica l’importanza fondamentale della parallela battaglia contro la militarizzazione di scuole, università ed enti di ricerca, denunciandone la crescente pervasività ed opponendosi a questa deriva antidemocratica e violenta, ma anche e soprattutto sviluppando crescenti occasioni di formazione, promuovendo progetti di peace education e diffondendone le ‘buone pratiche’ nelle istituzioni scolastiche ed accademiche.

Ulteriore tassello di un ‘programma costruttivo’ comune per i movimenti nonviolenti – emerso anche dalla discussione congressuale – è l’elaborazione comune di un’articolata proposta di modello alternativo di sviluppo, di convivenza e di relazioni.  Si è opportunamente ricordato, fra l’altro, che Papa Francesco, oltre a indirizzare costantemente il suo magistero sull’opposizione alla follia delle guerre e all’insensato sfruttamento ed inquinamento dell’ambiente naturale, ha anche dichiarato che la nonviolenza dovrebbe diventare lo stile della politica’. Per dirla con i maestri nonviolenti, dovrebbe insomma manifestare sempre più la sua natura di fine e mezzo di un cambiamento virtuoso, in una prospettiva di pace, giustizia e salvaguardia del pianeta, nostra ‘casa comune’.

Ma poiché il Movimento Nonviolento – come il MIR Italia – è impegnato con forze e risorse limitate in campagne particolarmente impegnative (Italia Ripensaci! – Un’altra difesa è possibile – Object War – reti contro il commercio delle armi etc.), si pone anche una questione di alleanze e di necessarie sinergie per potervi fare fronte. In tal senso, come ho avuto modo di ribadire nel mio intervento, va senza dubbio valutata positivamente l’esperienza di un coordinamento attraverso networks nazionali (come la RIPD) ed ultranazionali (War Resisters, Internation Fellowship of Reconciliation, European Bureau of Conscientious Objectors, Europe for Peace, etc.).  Allo stesso tempo, come affermato anche da Mao Valpiana, c’è anche bisogno di far valere la propria identità di nonviolenti, e quindi un ‘pensiero forte’ che va condiviso con un movimento per la pace molto composito, che spesso tende a puntare su obiettivi comuni minimali o comunque parziali. Ecco allora che si manifesta il pressante bisogno di quella capitiniana “aggiunta nonviolenta” di cui i nostri due storici movimenti italiani (e le rispettive reti internazionali) non possono non essere portatori e propagatori.

Concludendo, nel rinnovare gli auguri di buon lavoro agli amici e compagni di strada del Movimento Nonviolento, ci complimentiamo con loro anche per l’intensa e positiva mattinata di confronto, che è stata arricchita dalla presenza e dall’incisivo intervento di Olga Karach (iconica oppositrice pacifista alle politiche belliche della Bielorussia, e per questo perseguita e tuttora a rischio di espulsione dalla Lituania) e dai contributi registrati di noti attivisti per il diritto all’obiezione di coscienza in paesi in guerra come Russia ed Ucraina, Israele e Palestina. Non sono mancati altri importanti ed efficaci interventi, come quelli di sindacalisti, formatori e di una reporter che con Riccardo Iacona si è occupata delle guerre in corso per la trasmissione di Rai 3 Presa diretta.

Ermete Ferraro con Enrico Peyretti

Infine, una nota originale è stata la trasmissione dello schioppettante e surreale contributo di uno straordinario giocoliere con le parole come Alessandro Bergonzoni. Ed è proprio su questo aspetto, apparentemente secondario, che voglio concludere questa mia breve nota, sottolineando come ai persuasi della nonviolenza, ma anche ai giovani che ad essa si avvicinano timidamente, si possano proporre nuovi ed originali canali di ricerca, educazione ed azione per la pace. Uno di questi, oltre al già citato progetto ecopacifista, è quella eco-ireno-linguistica, cui sto cercando di dare corpo in prima persona.  L’intervento travolgente di Bergonzoni, infatti, ci ha ricordato quanta ambiguità e negatività si nascondano dietro le parole che usiamo ogni giorno, alimentando discorsi di odio, stereotipi razzisti e propaganda bellicista. Osservare, decostruire e demistificare i linguaggi violenti, quindi, è solo il primo passo per ricercare alternative comunicative non solo non aggressive, ma che ci aiutino anche a costruire relazioni giuste, pacifiche ed ecologiche, a tutti i livelli.

In questa preoccupante fase di svolta controriformista ed autoritaria, supportata da palesi messaggi politici d’intolleranza del dissenso e di stampo poliziesco, dunque, la nonviolenza ha più che mai bisogno di nuove teste da contaminare e di nuove gambe su cui avanzare.


(C) 2024 Ermete Ferraro – Art. pubblicato anche dall’Agenzia Internaz. di Stampa PRESSENZA (https://www.pressenza.com/it/2024/02/dare-nuove-gambe-alla-nonviolenza-in-cammino/ )

GUERRA E PACE A NAPOLI

«’O munno è comme uno s’ ’o ffa»

Ho partecipato recentemente alla presentazione del libro che l’amico Claudio Pennino ha dedicato alla tradizione culturale del popolo napolitano riguardante i sette vizi capitali, rivisitati attraverso locuzioni proverbiali più o meno note.[i]  Stimolato da quell’originale rassegna di detti popolari e wellerismi – opportunamente commentati ed integrati da riferimenti ‘alti’ come le Sacre Scritture, teologi e filosofi antichi, ma anche scrittori, sociologi e psicologi – ho ricercato nella tradizione culturale di Napoli riferimenti ad un tema che mi è caro, quello della pace.

Non a caso uno dei più noti libri sapienziali dell’Antico Testamento è quello dei Proverbi (in greco Παροιμίες, in latino Proverbia, ma nell’originale ebraico מִ֭שְׁלֵי (Meshalìm), cioè parabole, detti tradizionali). Infatti, se vogliamo scoprire ciò che la gente comune ha per secoli avuto come riferimenti etici per il proprio comportamento personale e sociale, non possiamo fare a meno di attingere anche alla fonte della saggezza popolare, a lungo tramandata oralmente di padre in figlio.  Una saggezza, d’altra parte, che spesso si manifesta con proverbi che dicono tutto ma anche il contrario, per cui è possibile trovarvi indicazioni e raccomandazioni talora diametralmente opposte. Tornando all’eccezionale tradizione napolitana, pur con evidenti contraddizioni, vi si riscontra la solida lezione di buon senso, originata dalla dura esperienza quotidiana da cui erano stati tratti quegli exempla [ii] per ammaestrare il popolo incolto.

Ebbene, se passiamo in rassegna la maggioranza di quei proverbi [iii], ne emerge di solito un aspro realismo, con scarsa concessione alle virtù alte ed a precetti moralistici (vedi: Me staje abbuffanno ‘ regole ‘e viento), propendendo verso un utilitarismo più pragmatico che ispirato ad astratti principi. Sebbene molti proverbi siano lascino trasparire una visione del mondo piuttosto fatalista (racchiusa in detti quali: “’A che munno è mmunno, è gghiuto sempe accussì”. “‘A necessità fa llegge”, “Chi campa deritto campa affritto”, “Addò ‘nce stanno ‘e fatte nun ce pônno ‘e pparole”, “Contr’ ’a forza nun ce ponno raggione[iv]) è altrettanto vero che la saggezza popolare ha spesso ancorato l’azione a principi profondamente radicati e largamente condivisi.

Innegabilmente, la maggioranza dei detti popolari consigliano di agire assoggettandosi alla tradizionale legge del più forte, suggerendo che a chi ha ricchezza e potere ci si debba inchinare, puntando così all’esigenza primaria della sopravvivenza in un mondo dominato dalla violenza ed in cui i deboli soccombono. Basti pensare al cupo pessimismo di espressioni quali: Chi pecura se fa ‘o lupo s’ ’a magna”, “Chi vence ave sempre raggione”, “Chi tene ll’arma ‘mmano è ppatrone d’ ’o munno, “Chi perde ave sempe tuorto”, “Chisto è ‘o munno: chi naveca e cchi va ‘nfunno”, “‘O nemmico ‘e ll’ommo è ll’ommo stesso”, “A cchi se fa puntone, ‘o cane ‘o piscia ‘ncuollo”.[v]

«Una è ’a guerra ca ce spetta…»

Però, grazie a quella stessa esperienza di vita, soprattutto nell’ambito dei rapporti interpersonali, il buon senso popolare ha insegnato pure che: Chi forza nunn’ave s’arma d’ingegno” (contrapponendo la razionalità al ricorso alla forza, se non altro quando non si è in grado di fronteggiarla adeguatamente) e che sarebbe saggio e utile sperimentare strade alternative alla solita reazione violenta e vendicativa, che comunque quasi sempre non risolve nulla o addirittura peggiora le situazioni (Mo faccimmo n’acciso e nu ‘mpiso”, “ ‘Nccopp’ô ccuotto acqua vullente…) [vi]. Non mancano quindi esortazioni a comportarsi con prudenza, comprensione e senza violenza, come ad esempio: Male nun fa’ e ppaura nunn’avé”, “Meglio è a dda’ c’a rricevere”, “‘O mmuollo rompe ‘o ttuosto”, “Chi semmena ardìche nun recoglie vruoccole”, “Chi semmena viento raccoglie tempesta”, “Chi semmena cortesie, mete lo benefizio”, “Chi patesce cumpatesce”) [vii].  La stessa cultura popolare, inoltre, mette spesso in ridicolo chi si crede forte e potente, con locuzioni proverbiali come: Vale cchiù uno a ffa’ ca ciente e ccumannà”, “‘E fodere cumbatteno e ‘e sciabbole stanno appese oppure, con sano realismo, Nun cuntrastà chi nun tene che pperdere[viii].

Il tema della guerra è abbastanza presente nella cultura popolare, con toni ora seri e drammatici, ora invece beffardi o caricaturali. Già il fatto stesso di opporsi a qualcuno, ad esempio, è talvolta definito Fa’ ‘a guerra a uno. Ma non manca la consapevolezza che molto spesso la violenza peggiore è quella anche solo verbale (“Accide cchiù ‘a lengua ca na schioppettata), mentre un altro proverbio (“‘A guerra cerca ‘a pace e ‘a pace cerca ‘a guerra”) sottolinea piuttosto l’assurda incontentabilità di un’umanità mai paga della propria situazione [ix].

Nei detti popolari non manca neppure la consapevolezza che la prima vittima di un conflitto bellico è sempre la verità (“Ntiempo ‘e guerra buscie comm’ ’a terra [x]) e, soprattutto, che l’unica cosa per cui sarebbe giusto combattere – per citare Viviani – è la quotidiana lotta per la sopravvivenza (“Una è ‘a guerra ca ce spetta / e ppurtroppo l’îmm’ ’a fa’ / chella llà ca tutte ‘e juorne / se cumbatte pe ccampà[xi]

Il poeta e drammaturgo napolitano, in uno dei suoi “Dieci Comandamenti”, ci presenta infatti un quadro lucido e spietato di che cos’è davvero la guerra, che solo apparentemente replica la violenza insita nella natura animale, ma è in effetti molto peggiore, in quanto non risponde tanto a connaturati istinti bestiali quanto ad una ben precisa volontà di dominio e sfruttamento.

«Largo e tunno chisto è ‘o munno: / pure ll’uommene, se sa /s’hann’ ‘a massacrà!                        
Che ll’afferra ca na guerra / ogne tanto s’ha dda fa’? /Forse pe’ sfullà?!                
So’ ‘e putiente, malamente, /  ca cchiù ‘a vorza hann’ ’a ‘ngrassa’, / senz’ave’ pietà!                    
‘O prugresso? More ‘o fesso! / Ih che bbella civiltà! /Che mmudernità!»
[xii].

Questi versi, profondi e purtroppo attuali, dipingono infatti un mondo ingiusto e violento, in cui la parte più ricca e potente dell’umanità è impegnata ad arricchirsi ulteriormente, senza provare alcuna compassione per i ‘fessi’ che muoiono nelle guerre a tal fine scatenate, mistificate però in nome del ‘progresso’ e di una irresistibile ‘modernità’.

«Cca nuje simmo crestiane / e ttenimmo ‘o ccore ‘mpietto! /    
E c’è cara ‘a vita nosta, / perciò mmerita rispetto!        
E vedimmo, pe ’stu fatto, / ‘e campà cu ‘a legge ‘e Ddio!            
‘Nnanze a Ddio nuje simmo eguale: / nun ce stanno “tu” e “io”!             
Ma però ‘e Cummandamente / se rispettano? Nun sempe!       
E sse sape…. ‘O munno è ttristo! / Chisti ccà so’ bbrutti tiempe!              
E ma allora, ‘o munno è ttristo  /e nnisciuno ‘o pò ccagnà?»
[xiii].

La risposta critica di Viviani alla mortifera logica bellica è molto chiara: se davvero siamo ‘cristiani’ (nel duplice senso dialettale di esseri umani e di seguaci di Cristo), il rispetto della vita dovrebbe costituire il primo imperativo categorico. Il secondo principio della ‘legge di Dio’ è che siamo tutti uguali (papa Francesco direbbe ‘fratelli tutti’), senza differenze e con pari diritti. Eppure i Comandamenti divini (da Gesù sintetizzati nei due precetti evangelici fondamentali, equiparando l’amore per Dio a quello per il prossimo [xiv]) non sono affatto rispettati, accampando pretestuosamente la scusa che “‘o munno è tristo”, ma dimenticando quanto affermato dal saggio proverbio che ho citato inizialmente, per cui invece: “‘O munno è comm’uno s’ ’o ffa”.

Di solito, nel variegato repertorio della tradizionale saggezza proverbiale troviamo affermazioni ispirate alla dura legge del più forte, maè altrettanto vero che altri detti napolitani ci esortano invece alla riflessione e alla prudenza: ’A pacienza vale cchiù d’ ’a scienza”, “Astipa e mmiette ‘ncore: quann’è tiempo caccia fore”, “A una â vota s’acchianano ‘e ffosse”, “Chi cerca chello ca nun deve, trova chello ca nun vô”, “Chi nun tene pietà pietà nun trova”, o anche “Chi cerca ’o mmale ‘e ll’ate trova ’o mmale sujo”, “Chi s’appicceca senza raggione fa pace senza suddisfazione” o “’E bbuone parole acconciano ’e male fatte”  [xv].

«Che sacrilegio…Nun facimmo male, Amà…»

Nel tradizionale contesto socioculturale autoritario, in cui il rifiuto di andare in guerra era considerato non solo come palese dimostrazione di vigliaccheria ma anche di scarsa virilità (“Chi nunn’è bbuono p’ ’o rre nun è bbuono manco p’ ’e riggina”, o anche “Chi nunn’è bbuona a ffa’ ‘o surdato, ‘a mugliera s’ ’a fotteno ll’ate), è abbastanza evidente che il concetto stesso di ‘obiezione di coscienza’ non avesse alcuno spazio [xvi]. Alcuni proverbi, però, ci ricordano come spesso si ricorresse ad un sicuro espediente per scansare il servizio militare e, soprattutto, per essere esonerati dal combattimento: farsi passare per malati di mente, secondo la nota espressione “Fa’ ‘o fesso pe nnu’ gghì’ â guerra[xvii].  Paradossalmente, quindi, per non partecipare alla follia della guerra si doveva far finta di essere stupidi o folli…[xviii] . Eppure la saggezza popolare non ha mancato di sottolineare che la povera gente – o comunque gli persone innocenti – sono le prime vittime di morte e devastazione provocate da conflitti d’interessi di chi ha potere, come recita il proverbio: “E ciucce s’appiccecano e ‘e varrille se scassano[xix].

Sulle ragioni di natura economica delle guerre, retoricamente fregiate di motivazioni nobili ed elevate, si esprime invece un’altra acuta locuzione proverbiale: “E denare so’ comm’ê surdate: so’ ffatte apposta p’ ’a guerra [xx]. Da ricordare poi anche il detto popolare “Meglio nu malo accordo ca na causa vinciuta[xxi], dal quale – passando dall’ambito legale per le controversie private a quello riguardante i conflitti più importanti e generali – si ricava la saggia considerazione di quanto sarebbe meglio addivenire ad una transazione – che media fra interessi spesso opposti – anziché affrontare gli inevitabili strascichi polemici di una netta vittoria.

Odi e storiche rivalità, infatti, fanno perdere ‘e lume” e “l’arraggia fa sulo rammaggio, col rischio di “ascì fore d’ ’a vuluntà ‘e Ddio e di “farse piglià d’ ’e diavule”, come non manca di ricordare Claudio Pennino passando in rassegna i proverbi che si soffermano sul peccato dell’ira [xxii]. La collera, infatti, obnubila la ragione e fa salire “o sango a ll’uocchie, per cui chi ne è afflitto  si sente “vollere ‘o sango dint’ê vvene (variante: “saglì ‘o sango â parte d’ ’a capa”) [xxiii].

Un ‘cameo’ letterario napolitano in tema di “Guerra e Pace” è l’omonima poesia/canzone, scritta nel 1937 dallo stesso Raffaele Viviani, da cui traspare amarezza e dolore:

«‘Ntiempo ‘e pace ‘e marenare: / figlie ‘nterra e varche a mmare.
‘Ntiempo ‘e guerra, juorne amare:/ varche ‘nterra e figlie a mmare.
Guerra e pace, pace e guerra:/ se distrugge e cresce ‘a terra»
[xxiv].

Per concludere sulla percezione del dramma della guerra da parte del popolo di Napoli, non posso fare a meno di citare la celebre commedia “Napoli milionaria!” di Eduardo De Filippo. Vi ritroviamo infatti i possibili atteggiamenti della gente comune di fronte alle conseguenze della guerra sulla propria esistenza quotidiana. A partire dall’atavica arte di arrangiarsi sempre e comunque, con un pizzico di cinismo e tanto opportunismo, incarnata da Amalia Jovine, dai suoi figli e da buona parte dei parenti e vicini di casa. Alla loro fatalistica rassegnazione ad un male cui non solo ci si dovrebbe adattare, ma da cui è perfino possibile ricavare cospicui vantaggi economici, nel capolavoro eduardiano fa da drammatico contraltare la stralunata, e talora patetica, figura di Gennaro, il capofamiglia reduce da un’esperienza bellica che lo ha duramente segnato e profondamente cambiato, ma che non riesce proprio a condividere coi suoi familiari.

«Che sacrilegio Ama’…Paise distrutte, creature spese, fucilazione…E quanta muorte…’E lloro e ‘e nuoste…E quante n’aggio viste…’E muorte so’ tutte eguale […] Chesta, Ama’, nun è guerra. È n’ata cosa […] ‘A sta guerra ccà se torna buone, ca nun se vo’ fa’ male a nisciuno…Nun facimmo male, Amà…Nun facimmo male…» [xxv]

Fatto sta che nessuno presta veramente attenzione alle sue dolenti parole, ma soprattutto nessuno ha voglia di ascoltarlo, perché condividerne la terribile angoscia significherebbe mettere in discussione la propria disinvolta condotta in tempo di guerra. Viceversa, quasi tutti gli altri, di fronte alle sue dettagliate e reiterate narrazioni di quella carneficina, cercano piuttosto di metterlo a tacere, ispirati dall’ambigua saggezza popolare racchiusa nel noto proverbio: Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Scurdammoce ’o passato [xxvi], che in realtà era il ritornello d’una canzone risalente allo stesso periodo di quella Napoli, devastata dai bombardamenti ma resa ‘milionaria’ dall’euforia economica portata dagli ‘alleati’.

«AMEDEO: Ma mo’ staie ccà cu nuie…Nun ce penza’ cchiù… GENNARO: Nun ce penzo cchiù? È na parola. E chi se po’ scurdà… AMEDEO (superficiale): Va buo’, papà…Cca è fernuto tutte cose… GENNARO (convinto) No. Ti sbagli. Tu nun he’ visto chillo c’aggio visto io p’ ’e paise…’A guerra nun è fernuta…» [xxvii].

«A chi ’a pace nun stima, ’a guerra nun lle manca»

Trattare di guerra e pace riferendosi alla cultura popolare di Napoli non può comunque prescindere dal fatto che parliamo d’una città profondamente segnata da secoli di dominazioni straniere e che è stata vittima di guerre sanguinose, seguite da periodi di dopoguerra in cui si è disperatamente tentato di ristabilire una certa – seppur travagliata – ‘normalità’.

Lo stesso concetto di ‘pace’ – se consultiamo un esaustivo e documentato lessico della lingua napolitana [xxviii] , seppure in qualche modo sacralizzato (ad es. nell’espressione: “Nsanta pace), è comunemente riportato alla sua accezione più banale e quotidiana di tranquillità, assenza di conflitti, rassegnazione (“Essere ‘na pace”, “lassà ‘mpace”, “metterse l’anema ‘mpace), ma anche di accordo tra parti in conflitto (“fa’ pace”, “fa fa’ pace”, “sta parapatte e pace”)  [xxix].

Da alcune citazioni letterarie emerge spesso l’idea di una pace a livello emotivo-sentimentale: “Ha perza ’a pace soia pe na guagliona (F. Russo), “Che pace, che silenzio!” (E. Murolo), ma talvolta anche una visione un po’ più ampia, come quella che fa da titolo a questo paragrafo, che sottolinea come chi non apprezza il valore in sé della pace prima o poi si troverà ad affrontare la tragedia della guerra. D’altra parte è altrettanto vero che, come recita un altro proverbio: “Nun po’ canoscere ’a pace chi nun ha pruvata ‘a guerra” [xxx].  

Sfogliando un altro corposo ed autorevole lessico del Napolitano, il significato di ‘pace’ che emerge più frequentemente dalle citazioni riportate è quello di tranquillità, ma anche di pazienza, rassegnazione, accordo: “Quanno volite fa pace co le mogliere”, “Li gradasse co chisto aggiano pace”, “Pigliate spasso e doppo stammo pace”, “Va staje pace) [xxxi] .

Eppure una pace che somiglia troppo al consonante vocabolo “pazienza” non è una vera alternativa alla violenza ed alla guerra, né tanto meno è uno strumento per superare ingiustizie e sopraffazioni. Una volta la si definiva “rassegnazione”, “conformismo”, ma oggi si preferisce parlare spesso, ipocritamente ed a sproposito, di “resilienza” [xxxii], confondendo la resistenza passiva – che invece fa parte dello strumentario della difesa nonviolenta – con la deleteria quanto frequente abitudine ad adattarsi allo statu quo, senza cercare di cambiarlo.

Concludo, tornando al grande Eduardo, con la citazione di alcuni versi d’una poesia nella quale ha espresso il suo desiderio d’una pace che non sia quella dei cimiteri né tanto meno che si prepari di nuovo a riempirli, ma sia piuttosto il frutto d’una coscienza raggiunta e del superamento di un’impotenza rassegnata. Una pace positiva, attiva e costruttiva, che apra le porte ad una vita diversa e degna di essere vissuta.

«Io vulesse truvà pace; / ma na pace senza morte.

Una, mmieze’a tanta porte, / s’arapesse pe’ campa’!

[…] Senza sentere cchiù ‘a ggente / ca te dice: io faccio…,io dico,

senza sentere l’amico / ca te vene a cunziglia’.

Senza senter’ ‘a famiglia / ca te dice: Ma ch’ ‘e fatto?

Senza scennere cchiù a patto / c’ ‘a cuscienza e ‘a dignita’.

Senza leggere ‘o giurnale… / ‘a nutizia impressionante,

ch’è nu guaio pe’ tutte quante / e nun tiene che ce fa’.

[…] Pecchè, insomma, si vuo’ pace / e nun sentere cchiu’ niente,

e ‘a spera’ ca sulamente / ven’ ‘a morte a te piglia’?

Io vulesse truva’ pace | ma na pace senza morte.

Una, mmiez’ ‘a tanta porte / s’arapesse pe’ campa’!

S’arapesse na matina, / na matin’ ‘e primavera,

e arrivasse fin’ ‘a sera / senza di’: nzerràte lla’». [xxxiii]


N O T E

[i] Claudio PENNINO, Peccato cunfessato è mmiezo perdunato. I sette vizi capitali nella parlata napoletana, Napoli, Ed. Intra Moenia, 2023

[ii]L’etimologia della parola esempio si ricollega al latino exemplum, a sua volta, da eximĕre = trarre fuori. L’esempio, quindi, è qualcosa o qualcuno “tratto fuori” (dalla massa comune), selezionato, messo in evidenza come modello, come campione da imitare (buon esempio) o da evitare (cattivo esempio)”. https://www.etimoitaliano.it/2016/06/esempio.html#:~:text=L’etimologia%20della%20parola%20esempio,da%20evitare%20(cattivo%20esempio)

[iii] In questo caso, fra i tanti disponibili, oltre a quello già citato mi sono limitato a consultare i seguenti testi: Raffaele BRACALE, Comme se penza a Nnapule – 2500 modi di dire napoletani (a cura di Amedeo COLELLA), Napoli, Cultura Nova Ediz., 2018; Vittorio PALIOTTI, Proverbi napoletani, Firenze, Giunti, 1995; Vittorio GLEIJESES, A Napoli si diceva così (Detti e Proverbi), Napoli, S.E.N., 1976.

[iv] “Mi stai riempiendo la testa di regole vuote, fatte di vento”, “Da che il mondo è mondo è andata sempre così”, “La necessità fa la legge”, “Chi vive rettamente muore afflitto”, “Dove ci sono i fatti non possono le parole”, “Contro la forza le ragioni non valgono”.

[v] “Chi si fa pecora se lo mangia il lupo”, “Chi vince ha sempre ragione”, “Chi ha l’arma in mano è padrone del mondo”, “Chi perde ha sempre torto”, “Questo è il mondo: chi naviga e che va a fondo”, “Il nemico dell’uomo è l’uomo stesso”, “A colui che si comporta come uno spigolo di strada il cane piscia addosso”,    

[vi] “Chi non ha forza si arma d’ingegno”, “Adesso facciamo: uno ucciso e uno impiccato”, “Sopra la scottatura acqua bollente”.

[vii] “Male non fare, paura non avere”, “È meglio dare che ricevere”, “Il tenero rompe il duro”, “Chi semina ortiche non raccoglie broccoli”, “Chi semina vento raccoglie tempesta”, “Chi semina cortesie ne raccoglie il beneficio”, “Chi patisce compatisce”.

[viii] “Conta più uno che fa che cento che comandano”, “I foderi combattono e le sciabole restano appese”, “Non metterti contro chi non ha niente da perdere”.

[ix] “Ne uccide più la lingua di una fucilata”, “La guerra cerca la pace e la pace cerca la guerra”.

[x]In tempo di guerra, bugie (grandi) come la terra”.

[xi] Raffaele VIVIANI, “Si vire a ll’animale”, da: I dieci comandamenti, 1947   – Vedi in proposito anche il mio articolo in napolitano: Ermete FERRARO, “ ‘A nurmalità è ‘o prubblema, no ‘a soluzzione…”, quotidiano Napoli, 29.04.2020, https://www.quotidianonapoli.it/cronaca-e-notizie-di-napoli-e-provincia/a-nurmalita-e-o-prubblema-no-a-soluzzione/

[xii]Largo e tondo, questo è il mondo/ pure gli uomini, si sa, devono massacrarsi / Che li prende, al punto che una guerra / ogni tanto si deve fare? / Forse per sfollare? / Sono i potenti, malvagi / che devono ingrassare sempre più la borsa / senza avere pietà! / Il progresso? Muore il fesso / Ah, che bella civiltà/ Che modernità!”.  Viviani, op. cit.  (N.d.A. – La grafia del testo vivianeo è stata da me lievemente modificata).

[xiii]  “Qua noi siamo cristiani / ed abbiamo il cuore in petto / e c’è cara la nostra vita / perciò merita rispetto / E vediamo perciò / di vivere in grazia di Dio / davanti a Dio noi siamo uguali / non ci sono ‘tu’ e ‘io’ / Ma allora i Comandamenti / si rispettano? Non sempre / E si sa: il mondo è cattivo / questi qua son tempi brutti / Ma allora il mondo è cattivo / e nessuno può cambiarlo?”.   Ibidem

[xiv] «Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. E il secondo è questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più importante di questo» (Mc 12,29-31).

[xv] “La pazienza vale più della scienza”, “Conserva e metti da parte nel tuo cuore; quando è il momento giusto tiralo fuori”, “Ad una alla volta si ripianano le fosse”, “Chi va in cerca di quello che non deve trova quello che non vuole”, “Chi non prova compassione non la troverà”, “Chi cerca il male altrui trova il proprio”, “Chi litiga senza ragione fa la pace senza soddisfazione”, “Le parole buone aggiustano i fatti cattivi”.

[xvi] “Chi non è valido per il re non è valido neppure per la regina”, “Se qualcuno non è capace di fare il soldato, di sua moglie se ne vedono bene gli altri”.

[xvii] “Fare la parte dello scemo per non andare in guerra”.

[xviii]  Cfr. la celebre e solenne affermazione: «Alienum a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda» traducibile con: «È estraneo alla ragione [irrazionale] che la guerra possa essere uno strumento adatto per rivendicare dei diritti violati», contenuta nell’Enciclica di Papa Giovanni XXIII “Pacem in terris” (1963).

[xix] “Gli asini litigano e i barili si rompono”.

[xx]I soldi sono come i soldati: sono fatti proprio per la guerra”.

[xxi] “Meglio una cattiva transazione che una causa vinta”.

[xxii]  C. Pennino, op. cit., pp. 135 e ss.

[xxiii] Espressioni traducibili con: “avere il sangue agli occhi”, “sentirsi ribollire il sangue nelle vene” e “sentirsi risalire il sangue al cervello”.

[xxiv] Cfr. R. VIVIANI, “E c’è la vita” (1930)

[xxv]  Eduardo DE FILIPPO, “Napoli milionaria!”, in I capolavori di Eduardo, Vol. I, Torino, Einaudi, 1973, p. 210 (NdA: la grafia del testo è quella originale di Eduardo). Trad.: “Che sacrilegio, Amalia. Paesi distrutti, bambini dispersi, fucilazioni..E quanti morti…I loro e i nostri. E quanti ne ho visti…I morti sono tutti uguali […] Questa, Amalia, non è guerra, è un’altra cosa […] Da questa guerra qua si torna buoni, che non si vuole fare male a nessuno…Non facciamo male Amalia… Non facciamo male”).

[xxvi] Giuseppe Fiorelli e Nicola Valente, “Simme ‘e Napule, paisà”, Napoli, Casa ed. ‘La Canzonetta’, 1944

[xxvii] “Napoli milionaria!”, cit., p.212 (Trad.: “Amedeo: Ma adesso stai con noi. Non ci pensare più. Gennaro: Non ci penso più? È una parola: chi se lo può dimenticare? Amedeo: Va bene papà, qua ormai è finito tutto… Gennaro: No, ti sbagli. Tu non hai visto quello che ho visto io girando per i paesi…La guerra non è finita”).

[xxviii] Don Matteo COPPOLA, Grande dizionario della lingua napoletana, Vico Equense, Ass.ne Cult.le Don Matteo Coppola, 2018

[xxix] Ivi, voce “pace”, vol. II, p. 104-105 (Trad.: “In santa pace”, “Essere una pace”, “Lasciare in pace”, “mettersi l’anima in pace, “far pace”, “far fare pace”, “stare patta e pace”).

[xxx]  Ibidem, Trad.: “Ha perso la pace sua per una ragazza”, “Che pace, che silenzio!”, “Non può conoscere la pace chi non ha provato la guerra”.

[xxxi] Cfr. Emmanuele ROCCO, Il vocabolario del dialetto napolitano, Voce “pace”, in: Antonio VINCIGUERRA, Studio ed edizione critica della parte inedita F-Z, Università degli Studi di Firenze, 2013, p. 614. Trad.: “Quando volete far pace con le mogli”, “I gradassi con ciò abbiano pace”, “Pigliati in divertimento e dopo stiamo in pace”, “Vai a stare in pace”).

[xxxii] Cfr. Ermete FERRARO, “Etimostorie #9: Resilienza” (12.03.2023), Ermetespeacebook . https://ermetespeacebook.blog/2023/03/12/etimostorie-9-resilienza/

[xxxiii] Cfr. Eduardo DE FILIPPO, Io vulesse truvà pace. https://storienapoli.it/2022/09/28/io-vulesse-truva-pace/  . Da questa poesia ho tratto ispirazione per una mia versione ‘nonviolenta’, pubblicata il 02/11/2014 sul mio blog:  https://storienapoli.it/2022/09/28/io-vulesse-truva-pace/  (Trad.: Io vorrei trovare pace/ ma una pace senza morte / Una, in mezzo a tante porte / si aprisse per vivere […] Senza star a sentire la gente / che ti dice: io faccio, io dico… / senza star a sentire l’amico/ che ti viene a consigliare / Senza star a sentire la famiglia / che ti dice: ma che hai fatto? / Senza scendere più a patti / con la coscienza e la dignità / Senza leggera nel giornale / la notizia impressionante / che è un guaio per tuti quanti / ma non puoi farci niente […] Perché insomma, se vuoi pace / e non sentir più niente / devi sperare solamente / che viene la morte a prenderti? / Io vorrei trovare pace / ma una pace senza morte / Una, in mezzo a tante porte / si aprisse per vivere! / Che si aprisse una mattina / una mattina di primavera /e arrivasse fino a sera / senza dire: ‘Chiudete là’ ”.

Parco Mascagna: da salvato a…disboscato

Una volta erano semplicemente i ‘giardinetti di via Ruoppolo’ e per intere generazioni di bambini della collina vomerese sono stati l’unico spazio verde dove giocare. Ma dopo il 1990, in seguito alla mobilitazione d’un intero quartiere per difenderli dalla distruzione – il prezzo da pagare per realizzare un assurdo parcheggio interrato di ben 10 piani – sono diventati un vero ‘luogo del cuore’, teatro di una lotta popolare e nonviolenta riuscita a sconfiggere, dal basso, la logica perversa del cemento e dell’automobile. 

Non è quindi un caso che quella stessa area verde comunale, dopo la sua ristrutturazione e valorizzazione, sia stata poi intitolata a Marco Mascagna, giovane pediatra ambientalista che come e più degli altri si era reso protagonista di quella eccezionale battaglia ecologista, morto poco tempo dopo, travolto da un’autovettura mentre pedalava sulla sua bici.

Da allora il ‘Parco Mascagna’ ha subito varie fasi di deterioramento, depauperamento del patrimonio arboreo e degrado delle strutture ludiche, per una mancata manutenzione ordinaria e per interventi inopportuni, con chiusura parziale di spazi verdi e ricreativi. Ma nel 2019 – col finanziamento della Città Metropolitana di Napoli (programma ‘Ossigeno Bene Comune’) l’Amministrazione Comunale approvò finalmente una delibera per la sua ‘riqualificazione’. Un progetto già discutibile, ma che per ben quattro anni non ha comunque trovato attuazione.

Solo una decina di giorni fa – dopo la chiusura dell’intero parco per due mesi, motivata da potenziali rischi per la sicurezza dei fruitori a causa di alberi ritenuti malati ed instabili – la sbandierata ‘riqualificazione’ è iniziata, ma nel modo peggiore. La ditta appaltata dal Comune, infatti, per quasi una settimana ha abbattuto numerosi lecci lungo il perimetro del parco, senza che fosse apposto l’obbligatorio ‘cartello di cantiere’ e senza che l’Assessorato al Verde e la Direzione competente rispondessero alla richiesta urgente via PEC di accedere agli atti autorizzativi e di certificazione agronomica che avvalorassero quella preoccupante strage.

Come scriveva Il Mattino del 26 novembre: “Un folto gruppo di cittadini si è radunato all’esterno dei cancelli del parco Mascagna per esprimere la loro disapprovazione allo sterminio di alberi che in questi giorni la ditta incaricata dal Comune sta portando avanti […] Il paesaggio visibile dall’esterno del parco Mascagna è spettrale: ceppaie, alberi tagliati in più parti, tronchi a cui sono state quasi del tutto asportate le chiome e un vero e proprio tappeto di foglie…”

Il Circolo di Napoli di V.A.S. – di cui sono portavoce – in questa circostanza è stato uno dei soggetti più attivi di questa mobilitazione, insieme con le altre componenti della Rete Sociale No Box e del comitato spontaneo ‘mamme per il parco Mascagna’. Ho inviato ben due PEC chiedendo ufficialmente di accedere agli atti; con altri ho presidiato e contestato i lavori di capitozzamento e abbattimento dei lecci perimetrali ed ho anche denunciato formalmente anomalie amministrative e procedure sbrigative al vicino Commissariato di P.S. ed alla stazione dei Carabinieri Vomero-Arenella, richiedendo inoltre l’intervento urgente del Gruppo di Napoli dei Carabinieri Forestale. Tutto senza apprezzabili riscontri, mentre molti cittadini/e reclamavano invece chiarimenti su quella strage di alberi compiuta in nome della pretesa ‘riqualificazione’ di un’area verde comunale.

Dopo un servizio piuttosto parziale del TGR Campania e la tendenziosa intervista fattami nel corso di una ‘diretta’ da parte di Canale 5, finalizzata ad additare gli ambientalisti come irriducibili rompiscatole che ostacolano l’attività dei Comuni, se non addirittura come complici di tragiche vicende causate dalla caduta di alberi, una delegazione della Rete civica che si batte per salvare i giardini di Marco da questa brutale ‘squalificazione’ è stata finalmente ricevuta a Palazzo San Giacomo dall’Assessore alla Salute, al Verde e all’Ambiente, dott. Santagada. Alla presenza del dirigente comunale, di due agronomi e della R.U.P., è stato possibile presentare le nostre osservazioni critiche sulla mancata trasparenza delle procedure e sul rischio di spogliare il Parco di gran parte delle sue alberature, introducendo invece in quello spazio piuttosto ridotto funzioni diverse (area cani, area fitness, area ristoro), senza la prevista informazione e partecipazione civica e sulla base di interventi non condivisi né opportunamente pubblicizzati.

Dalla vivace riunione del 28 novembre è emersa una serie di posizioni da parte dell’A.C. che in alcuni casi avvalorano più che dissipare i dubbi espressi dagli ambientalisti. Si conferma infatti che saranno eliminati 23 alberi nella sola area perimetrale (in quanto danneggiati irrimediabilmente da insetti xilofagi), ma parallelamente si dichiara che ne saranno ripiantate altrettanti proprio della stessa tipologia (lecci) che ha subito l’infestazione. Si riconosce l’omissione dell’apposizione del cartello di cantiere, ma dopo oltre una settimana se ne appone uno, piuttosto piccolo, all’interno di un’area recintata e interdetta al pubblico. Si annuncia un’auspicabile fase di collaborazione tra Comune e Cittadini per garantire trasparenza e partecipazione, ma dopo 10 giorni non sono tuttora disponibili le copie delle certificazioni agronomiche e delle relative autorizzazioni agli abbattimenti, lasciando fra l’altro inevasa la richiesta di sapere quanti altri alberi saranno eliminati anche nell’area interna del parco, per la quale non esiste un monitoraggio preventivo.

Da ecopacifista, che 35 anni fa a quella lotta nonviolenta per salvare quei giardini ha partecipato in prima persona, non posso fare a meno di denunciare questa ennesima discutibile operazione di pseudo-valorizzazione del verde cittadino. Allo stesso modo devo rilevare quanto poco e male i media diano spazio alle vertenze ecologiste e civiche, arrivando talvolta a criminalizzarne gli attori come un pericoloso ostacolo a lavori pubblici sui quali, a quanto pare, non si deve mettere il naso e per i quali trasparenza e partecipazione sono visti con fastidio.  


(C) 2023 Ermete Ferraro – Articolo pubblicato sul sito web di V.A.S. aps, all’indirizzo https://verdiambientesocieta.eu/2023/11/30/parco-mascagna-unarea-verde-di-napoli-ad-oggi-disboscata/

I ‘proclami’ del pensiero unico filo-israeliano

L’articolo di Ruben Razzante su IL MATTINO del 17.10.2023 “I proclami del terrore che il web non blocca” (https://www.ilmattino.it/pay/edicola/i_proclami_del_terrore_che_il_web_non_blocca-7698939.html?refresh_ce) mi sembra un esempio lampante di come, paradossalmente, si possano attaccare su un giornale le strategie di disinformazione finalizzate a “spargere veleni” proprio mentre si opera in quella stessa direzione. 

Il bersaglio del giornalista sono i ‘social’ ed il ‘web’, attraverso i quali organizzazioni islamiste “come Hamas” (quali?), con una “amplificazione costante”, punterebbero ad “alimentare un clima altamente tossico e contrassegnato dal terrore permanente” […] per alimentare la spirale della drammatizzazione del conflitto.” 

Al giornalista, a quanto pare, non viene in mente che uno dei problemi che hanno reso esplosivo questo infinito conflitto possa essere stato proprio il complice silenzio dei media sulla tragica situazione in cui da 75 anni si trovano i Palestinesi, privati di ogni diritto, espulsi dal loro territorio e marginalizzati da una politica di apartheid.  Ciò che ga lui appare una provocatoria “amplificazione” è piuttosto lo svelamento inevitabile d’una condizione insostenibile, su cui in troppi, e per troppo tempo, si è preferito tacere, se non mistificarne la natura.

Il “terrore permanente” cui sono stati sottoposti per decenni i Palestinesi (compresi donne, anziani e bambini), secondo Ruben Razzante, non esisteva già da prima, ma sarebbe frutto solo di una “spirale della drammatizzazione del conflitto”, finalizzata ad “esacerbare gli animi” con un “linguaggio d’odio” e “disseminando sul terreno del dialogo ostacoli subdoli difficilmente disinnescabili”.

Mi sembra evidente che i termini usati dal giornalista escludano di fatto ogni responsabilità dello Stato d’Israele, sebbene la sua arrogante politica – di stampo colonialista e militarista – sia stata caratterizzata da tutt’altro che tentativi di “dialogo” e “costruttivi percorsi di pacificazione”. Ad alimentare il “clima altamente tossico” denunciato nell’articolo, viceversa, mi sembra che contribuisca lo stesso autore, ad esempio quando opera una speciosa e partigiana differenza tra gli appelli a favore di Israele e quelli a favore dei Palestinesi.

Egli, infatti, non esita a scrivere che: “molte celebrità hanno deciso di esporsi, proprio usando le piattaforme social, postando storie e commenti e per dichiarare piena solidarietà ad Israele. Ma ce ne sono state anche altre che hanno sfruttato lo spazio virtuale per condividere appelli in favore della causa palestinese”.  Risulta palese il giudizio di valore sotteso a queste parole: le personalità che hanno appoggiato gli Israeliani sarebbero quasi degli eroi, che hanno avuto il coraggio di “esporsi” mediaticamente. Viceversa, i personaggi che hanno manifestato solidarietà ai Palestinesi avrebbero biecamente “sfruttato lo spazio virtuale”.

“Fake news”, “comportamenti sbagliati”, “un siero letale iniettato nei circuiti mediatici”,   secondo il giornalista, sarebbero il prodotto esclusivo di “provocatori e produttori seriali di notizie false” (ovviamente filo palestinesi…), per cui: “la circolazione online di contenuti falsi e manipolati contamina i circuiti informativi e ispira il più delle volte reazioni violente e scomposte che infiammano le lotte tra fazioni allontanando il traguardo della pace” e “mettono a repentaglio la stabilità mondiale”.

Quest’ultima frase mi sembra particolarmente rivelatrice di che cosa intenda l’autore dell’articolo quando parla di “pace”.  È probabilmente la ‘pace’ della subalternità accettata supinamente, dell’ingiustizia assurta a regola, delle violazioni dei diritti umani date per ovvie e scontate. È la ‘pace’ che non comprometta la “stabilità mondiale”, anche se quest’ultima si fonderebbe sulla stabilizzazione di logiche imperialiste, interessi economici imposti con le armi, depredazione ambientale e sfruttamento dei soggetti più deboli e marginali.

Non sono certo questi i “traguardi” cui tende il vero movimento per la pace, che si fonda invece sulla nonviolenza, la salvaguardia dei diritti umani, la giustizia sociale, e propone percorsi di disarmo, di smilitarizzazione e di ripudio della guerra. Ecco perché non sono i cosiddetti “proclami del terrore” che intossicano l’opinione pubblica, ma piuttosto l’imposizione di un pensiero unico e la caccia a chi da esso dissente.

Etimostorie #11: quando le parole prendono una certa…piega

È sorprendente, talvolta quasi incredibile come, nel tempo, da azioni banali e quotidiane siano derivati vocaboli tanto numerosi quanto differenti e a prima vista indipendenti per senso e forma. Pur rispondendo a norme linguistiche abbastanza precise, del resto, la magia dell’esplorazione etimologica del nostro lessico risiede proprio nel fascino esercitato della scoperta d’impreviste connessioni tra parole, che ci apre a considerazioni importanti sul piano logico-semantico, ma anche psico-sociale.

Prendiamo, ad esempio, uno degli atti più antichi che l’homo sapiens abbia storicamente compiuto per migliorare la propria esistenza quotidiana. Ricavare striscioline da fibre vegetali verdi o secche (es.: da canne, giunchi, stipe dei cereali, lino etc.) per poi intrecciarle tra loro e comporne rudimentali tessuti per ricoprirsi e fabbricare utensili, è infatti un’attività documentata fin dal Neolitico, quindi all’incirca dal 5° millennio avanti Cristo, sebbene per qualcuno sia iniziata molto tempo prima. [1]

E da questa primordiale forma di manualità artigianale parte anche questa mia breve ricerca su una prolifica famiglia di parole, riconducibili all’antica radice sanscrita il cui significato era appunto quello di: mischiare, collegare, intrecciare.

«…lat. PLI-CARE, che alla pari di PLEC-TERE trae dalla rad. PARK- = PRAK-, PLAK-, che è nel sscr. pŗ-ņa-k-mi (per prak-na-mi) mischio, collego (onde il senso d’intrecciare […] e il gr. plek-ô attorco, intreccio plégma canestro…» [2]

In principio, quindi, era il verbo PLICARE, che descriveva l’antichissima azione di piegare ed intrecciare fibre vegetali e animali per scopi domestici, solitamente affidata alle donne. Ebbene, da quel primordiale e materiale atto di PIEGARE (valacco plecà, prov. piegar, fr. plier, sp. llegar, port. pregar, chegar, ingl. ply) [3] sono scaturite altre e differenti forme verbali, grazie al solito meccanismo della modificazione preverbiale del verbo-base, mediante vari prefissi preposizionali. Basta anteporre al verbo originario le più comuni preposizioni latine, infatti, per dar vita a verbi di significato anche molto diverso, la cui origine resta ai più insospettabile.

AD- ha originato il verbo AD-PLICARE, da cui APPLICARE, APPLICARSI, indicante l’azione di apporre qualcosa sopra un’altra, accostare, far aderire, mettere in pratica, adattare e, in forma riflessiva, quelle di dedicarsi ad un compito. [4]

CUM- è la preposizione che denota sia gesti di unione e rapporti di compagnia, sia la sovrapposizione/composizione di elementi singoli. Da qui il verbo CUM-PLICARE, il cui significato prevalentemente negativo dipende dal fatto che complicare situazioni e relazioni è quasi sempre causa di problemi e conflitti, o quanto meno di difficoltà. Per non parlare dei sostantivi derivati da quel verbo, come complice o complotto, che evocano azioni illecite, delittuose o comunque segrete.

DIS-PLICARE ed EX-PLICARE (da cui dispiegare e spiegare), viceversa, richiamano azioni che fanno da antidoto al verbo precedente, rendendo situazioni e relazioni finalmente palesi, chiare, evidenti e comprensibili, mediante procedimenti di elaborazione logica che servono ad eliminare le ‘pieghe’ provocate da chi avrebbe invece interesse a mantenerci nell’oscurità e nell’ignoranza.

IN-PLICARE cioè piegare dentro, avvolgere [5] – suggerisce ugualmente azioni poco positive, che presentano un soggetto implicato da altri in qualcosa che non nasce dalla propria volontà, coinvolgendolo in atti e situazioni spesso spiacevoli o pericolose. Anche l’accezione più positiva del verbo ‘implicare’, ad esempio quella logico-matematica sintetizzata dal connettivo ifà then [6] ), non prevede scelte autonome, bensì automatismi ed esiti obbligati, conseguenziali a scelte ed azioni precedenti. Una variazione semanticamente diversa dello stesso verbo è quella che ha generato il verbo impiegare ed il sostantivo impiego, col significato di utilizzo di qualcosa (un capitale, una risorsa…) o di qualcuno (ad esempio un lavoratore…) per ottenere un certo risultato.

Credo che generazioni di giovani che hanno ricercato ed atteso, spesso a lungo, proprio un buon impiego non abbiano affatto collegato tale destinazione produttiva con un mortificante atto di piegamento, sebbene per molte persone il lavoro impiegatizio abbia molto presto rivelato la sua natura subalterna e dipendente…

Concludendo: mi sembra che esplorare i vari significati del verbo PLICARE e suoi derivati possa risultare utile alla comprensione di procedimenti logici e psico-sociali che hanno caratterizzato l’esistenza umana. Un’esistenza troppo spesso travagliata, in cui alcuni sembrano malignamente darsi fare per COMPLICARE la vita degli altri e per IMPLICARE forzatamente il prossimo nei loro progetti, costringendoli così a fare di tutto per ESPLICARE/SPIEGARE la propria situazione, cercando spiegazioni e chiarimenti.

Del resto, la stessa radice semantica indica un’azione in cui piegarsi non è necessariamente un gesto di sottomissione o di rassegnazione, poiché storicamente ci parla del necessario adattamento umano all’ambiente fisico e sociale, non per subirlo passivamente ma per coglierne le risorse positive e modificarne gli aspetti negativi. Va ribadito, comunque, che scegliere di vivere da ‘piegati’ contraddice la natura libera e autonoma dell’essere umano, costringendolo a guardare in basso anziché alzare lo sguardo verso prospettive più elevate e dignitose.

La stessa evidente complessità del mondo moderno, peraltro, va accettata consapevolmente come una caratteristica evolutiva irrinunciabile, piuttosto che banalizzarla con atteggiamenti e comportamenti improntati invece ad impossibili semplificazioni e schematizzazioni della realtà. Stiamo attenti, però, a non confondere ciò che è per sua natura COMPLESSO con ciò che, viceversa, è stato volutamente COMPLICATO, dal momento che non si tratta per nulla di aggettivi sinonimi.

«Secondo Barenboim, riferendosi all’opera musicale: “Complesso è un miscuglio, un insieme di cose che possono essere anche molto semplici, ma che insieme generano qualcosa di nuovo e completamente diverso, da cui a volte non sai cosa aspettarti. Complicato è qualcosa di macchinoso e che non possiede nessuna logica interna”.» [7]

Morale della favola: applichiamoci, implichiamoci ed impieghiamoci pure, ma a condizione di non trasformare il nostro necessario piegarci alla realtà fisica e sociale in una preventiva – ed evidentemente deleteria – rinuncia a quella libertà di pensiero e di coscienza che è invece la nostra più grande ricchezza.

© 2023 Ermete Ferraro


[1] Cfr. https://www2.muse.it/perlascuola/documenti/scoperta_filo.pdf  – Vedi anche: https://alleyoop.ilsole24ore.com/2020/01/19/dalle-origini-delluomo-al-futuro-sostenibile-la-storia-sorprendente-dei-tessuti/

[2]  https://www.etimo.it/?term=piegare

[3] Ibidem

[4] Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/applicare/

[5] Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/implicare/https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=implicare

[6] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Implicazione_logica

[7]  https://www.elenabizzotto.it/non-sono-sinonimi-complesso-e-complicato/#:~:text=Complesso%20%C3%A8%20un%20miscuglio%2C%20un,non%20possiede%20nessuna%20logica%20interna.

Una mimetica…ecologista

Di recente mia moglie ha trovato casualmente in un armadio, a lungo nascosto da altri capi d’abbigliamento, un mio vecchio calzoncino estivo, caratterizzato dalla colorazione ‘mimetica’ del tessuto. Mi sono reso conto che, forse, a suo tempo ero stato proprio io a togliere di mezzo quel particolare pantalone, in quanto la sua fattura smaccatamente ‘militare’ contrastava con la mia natura di pacifista e antimilitarista. Riguardando le macchie verdastre e color terra che variegavano quel calzoncino, d’altra parte, non ho potuto fare a meno di riflettere su quanto spesso ci lasciamo scioccamente influenzare dalle convenzioni, adattandoci ad impostazioni e visioni diventate troppo abituali per essere messe in discussione.  Pur senza scomodare le teorie linguistiche sull’arbitrarietà del segno linguistico, l’aver voluto identificare lo stesso termine ‘mimetica’ con un concetto inerente al combattimento armato ed al ‘camouflage’ dei soldati è un grossolano errore. Infatti, se è innegabile che “Il camuffamento militare si riferisce a qualsiasi metodo utilizzato per rendere meno rilevabili le forze militari alle forze nemiche. In pratica, è l’applicazione di colori e materiali utili a nascondere all’osservazione visiva (criptismo) o a far sembrare qualcos’altro (mimetismo) uniformi, mezzi e attrezzature militari[i], è altrettanto vero che indossare abiti che imitano i colori della natura circostante potrebbe e dovrebbe rappresentare un implicito riconoscimento di farne parte e della volontà di riadattarci ecologicamente al contesto ambientale.

Il termine ‘mimetica’, in origine, ci rinviava all’arte di conformarci ad un modello ritenuto fondamentale e, per Aristotele, tale mimesis coinciderebbe con l’imitazione della forma ideale della realtà. Riletta in questa chiave – e soprattutto spogliata della sovrastruttura logica per cui ci si ‘mimetizza’ solo per nascondere ai ‘nemici’ le proprie intenzioni aggressive – il ricorso ad una simile colorazione potrebbe dunque assumere significati diversi, se non alternativi.Vestirsi con indumenti che imitino il colore della corteccia degli alberi, del fogliame e del terreno, in effetti, dovrebbe più logicamente indicare una volontà di immergersi nella natura, di identificarsi con essa, di ‘naufragare’ leopardianamente nell’immenso mare della realtà fisica, riconoscendo di farne parte anziché ritenercene arroganti dominatori. Non pretendo certo di negare la triste realtà che per più di due secoli ha finalizzato il camuffamento come metodo per proteggersi dagli attacchi nemici e/o per attaccarli indisturbati. Trovo però assurdo che l’utilizzo di metodi di adattamento cromatico degli esseri umani all’ambiente naturale sia considerato riferibile solo ad una tattica militare, cioè ad un metodo per uccidere altri uomini e provocare danni al territorio.

La verità è che, da sempre, quanto è stato prodotto dall’uomo, sia pur in modo creativo e talvolta geniale, è nato comunque dall’osservazione attenta e costante della natura che lo circondava, copiandone diligentemente movimenti, forme e colori per adattarli alle proprie esigenze di vita, non certo di morte.  Un’osservazione purtroppo sempre meno praticata, sconfitta dalla consuetudine a vivere in ambienti artificiali, assecondando una rigida logica antropocentrica che c’impedisce quasi di dialogare con la natura. Il fatto è che ormai la consideriamo quasi del tutto estranea alla nostra vita – pur essendone indiscutibilmente la fonte – e, soprattutto, qualcosa da cui difenderci più che da assecondare ed in cui immergerci. Lo stesso verbo ‘camuffare’, del resto viene spiegato semanticamente dalla Treccani come “1. Travestire, mascherare […] 2. ant. Ingannare, truffare…” [ii], definizione che peraltro rimanda alla sua etimologia, evocante appunto l’azione di travestirsi (come per l’inglese to muffle, cioè rivestire, bendare), ‘travisandosi’ allo scopo di ingannare e di agire furtivamente [iii]. Anche il mimetismo animale, peraltro, è una risorsa che consente di nascondersi nel contesto ambientale, principalmente a scopo difensivo ma spesso anche per attaccare le prede senza farsi individuare preventivamente. Come si spiega in un interessante articolo: “Alcuni animali presentano certe forme e colori che li aiutano a confondersi con l’ambiente circostante o a sembrare altri animali o piante. Alcuni addirittura sono in grado di cambiare il loro colore in maniera spontanea a seconda della situazione. Per questo motivo è difficile vedere gli animali che si mimetizzano e che creano diverse illusioni ottiche. Il mimetismo e il criptismo sono meccanismi fondamentali per la sopravvivenza di molte specie che presentano forme e colori cangianti[iv].

Il guaio è che comunemente questo concetto è stato applicato agli esseri umani nel senso più deleterio, cioè come mezzo per aggredire i propri simili usando la natura come un comodo travestimento di intenzioni ostili più che difensive. Credo che tale negativa visione vada finalmente superata, recuperando il mimetismo come un positivo riconoscimento della nostra appartenenza alla realtà naturale, adattandoci saggiamente alle sue eterne ed imprescindibili leggi, anziché opporvici con la solita ybris antropocentrica. Lasciamo quindi ai militari l’opportunistica tattica del camuffamento per confondersi nell’ambiente e colpire meglio e più in sicurezza gli avversari, utilizzando così i colori della natura per minacciarne l’integrità con armi sempre più micidiali e devastanti.Il mimetismo ecologista che dovrebbe distinguerci, viceversa, è quello che ci può aiutare ad inserirci armoniosamente nella natura, sentendocene parte e proteggendone la biodiversità e l’integrità come rispetto e cura della nostra ‘casa comune’ [v]. Anche un pezzo di stoffa variegato coi colori del bosco può servire a ricordarcelo, cancellando l’imprinting di secoli di tradizione militarista, che ne ha fatto invece un nefasto simbolo di guerra.


[i] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Camuffamento_militare e https://en.wikipedia.org/wiki/Military_camouflage

[ii] Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/camuffare/

[iii] Cfr. https://www.etimo.it/?term=camuffare

[iv]  Cfr. https://www.animalpedia.it/mimetismo-animale-definizione-tipi-ed-esempi-2917.html

[v] Cfr. Papa Francesco, Laudato si’ – https://www.vatican.va/content/dam/francesco/pdf/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si_it.pdf

Pregavamo alla marinara…

Un meeting di professionisti del culto agli ordini della NATO

In una delle mie incursioni sul sito web del Comando delle Forze Navali degli Stati Uniti in Europa ed Africa – al fine di ricavarne utili informazioni su possibili attracchi di natanti a propulsione nucleare nel porto di Napoli o sulle nuove ‘missioni’ guidate dall’USEUCOM/AFRICOM – mi sono imbattuto in un articolo che ha attratto la mia attenzione sia come ecopacifista sia come credente.

Già il titolo del servizio (“Interoperabilità del supporto spirituale: Migliorare la prontezza spirituale nella NATO”) [i] denotava infatti una visione della religione unicamente come utile ed opportuno sostegno spirituale ai nuovi, preoccupanti, wargames della NATO. Per essere più precisi, l’incontro interreligioso cui si riferisce l’articolo è avvenuto sulla USS Mount Whitney, ammiraglia della 6^ Flotta USA, nel quadro dell’esercitazione BALTOPS 23, attuale edizione della mega-manovra interforze della NATO nel Mar Baltico, che in questi tragici momenti assume un significato ancor più specifico ed allarmante.

«La costa di Klaipeda, in Lituania, è il teatro dell’operazione, iniziata il 4 giugno e destinata a concludersi il 16 giugno. Di gran rilievo la presenza italiana, con la nave San Marco protagonista di una complessa infiltrazione anfibia. Obiettivo simulare una “dimostrazione di forza” ai danni dell’Alleanza Atlantica. A due ore di auto, nell’entroterra del Paese, nella base di Lakunu, vicino Siauliai, è in corso Air Defender». [ii]

La finalità di quello specifico incontro, peraltro, era così presentata all’inizio del servizio:

«Durante l’esercitazione Baltic Operations 2023, le nazioni alleate e partner hanno operato a fianco di forze non solo terrestri, aeree e marittime, ma hanno anche implementato, addestrato e rafforzato il loro corpo spirituale. In preparazione all’esercitazione, 14 cappellani in rappresentanza di otto nazioni si sono riuniti a bordo della USS Mount Whitney per la Conferenza dei Cappellani ‘pre-sail’, incentrata su concetti di interoperabilità, eventi di esercizio, coordinamento logistico e condivisione di competenze e protocolli» [iii].

Da una pur superficiale analisi critica del testo si rileva facilmente che il tono dell’articolo ha poco a che fare con un’autentica spiritualità, assumendo piuttosto una coloritura burocratico-militare, evidenziata inoltre dall’utilizzo di una terminologia quasi aziendale, che impiega verbi ed espressioni di stampo tecnocratico quali: implementare, addestrare, interoperabilità, esercizio, coordinamento logistico, competenze, protocolli…).

In questa ecumenica ‘missione’ congiunta, i suddetti ministri di culto – di diversa nazionalità e differenti credi religiosi – sono stati dunque impegnati per due settimane sulla nave al comando  di una simulazione bellica per ‘addestrare’ i rispettivi ‘fedeli’ in uniforme “su argomenti spirituali relativi ai militari, come il danno morale”, con la motivazione che “i cappellani sono ufficiali navali e professionisti del ministero religioso che si concentrano sulla prontezza spirituale del loro equipaggio assegnato[iv].

Francamente non è chiaro di quale “danno morale” si parli nell’articolo (a parte quello derivante dalla preparazione di azioni di guerra, causa di morte e devastazione) né cosa sia la misteriosa “prontezza religiosa” che, secondo la Marina USA, andrebbe alimentata negli equipaggi navali. Viceversa, mi sembra fin troppo evidente la visione cinicamente utilitaristica dei cappellani come “professionisti” delle religioni, al servizio della sedicente missione militare nel Baltico in quanto “fonte d’incoraggiamento per la loro gente[v].

Alimentare benessere, fiducia e solidarietà tra militari?

Non ci aiutano a comprendere meglio questa strana adunata militar-religiosa neppure le spiegazioni fornite dall’intervento del Capitano della U.S. Navy Brian Weigelt.

«I cappellani si relazionano a marinai e marines per la loro identità pastorale, la loro vocazione a prendersi cura di tutta la persona. Mentre prestano servizio come professionisti del ministero religioso, si prendono cura di tutti indipendentemente dal rango o dalle credenze religiose o non religiose e hanno completa riservatezza. Ma servono anche come ufficiali della Marina che capiscono le sfide uniche della vita in mare e la cultura della più ampia organizzazione» [vi].

Da cristiano, leggendo queste parole mi è venuta alla mente l’ammonizione evangelica “Nessun servitore può servire a due padroni” (Lc 16:13), però è evidente che per l’ufficiale della marina statunitense non solo non c’è alcuna contraddizione tra il servizio religioso e quello militare, ma sussiste anche la convinzione che la “vocazione” dei cappellani sia finalizzata ad incrementare la c.d. “prontezza spirituale” dei futuri combattenti.

I cappellani, si ribadisce infatti, in quanto “direttamente interessati al benessere individuale di marinai o dei marines, offrono soluzioni e indicazioni che un leader di mentalità bellica non può offrire[vii]. In altre parole: sono comunque utili alla ‘causa’, anche perché “l’interoperabilità delle forze spirituali alleate e partner è incentrata sulla creazione di fiducia per tutti i soggetti coinvolti[viii]. I cappellani imbarcati sulle navi militari, inoltre, sono considerati funzionali all’esercitazione militare della NATO anche in chiave di supporto psicologico, laddove si presentino scenari critici come suicidi o incidenti, come un uomo in mare, in quanto “l’intero equipaggio ne verrebbe traumatizzato” ed essi potrebbero fornire una risposta aggiuntiva in caso di crisi. 

In buona sostanza, secondo il servizio ‘affari pubblici’ delle US Naval Forces Europe-Africa, i c.d. ‘professionisti del ministero religioso’ sarebbero utili per assicurare il ‘benessere’ e cementare la ‘fiducia’ negli equipaggi, ma anche per far superare gli inevitabili traumi di chi combatte col ‘prendersi cura’ del personale militare, rafforzando così “il senso di solidarietà che migliora il nostro impegno per il lavoro” [ix].

«Mentre l’esercitazione volge al termine, la forza dei cappellani si riunirà a Kiel, in Germania, per la conferenza inaugurale sulla Interoperabilità del supporto spirituale per il Comando Marittimo della NATO. Lì esamineranno gli eventi dell’esercitazione, determineranno cosa è andato bene e su cosa dovrebbero concentrarsi l’anno prossimo e inizieranno la pianificazione preliminare. I loro due temi principali saranno gli standard di cura per la cappellania nel settore marittimo della NATO e il ruolo dei cappellani nel combattimento marittimo» [x].

Come avevo già ribadito in precedenti articoli [xi], il connubio blasfemo tra ministeri religiosi e ministeri della guerra è dunque tutt’altro che superato, con buona pace di don Milani, di cui proprio quest’anno ricorre il centenario. Oggi si utilizzano toni meno retorici ed un linguaggio più aziendale che bellicoso, ma a mio avviso resta lo scandalo dell’innegabile subalternità dei cappellani militari alle gerarchie militari, di cui quei ministri del culto hanno improvvidamente accettato di essere parte integrante, col pretesto di prendersi cura delle anime di coloro che vengono invece addestrati ad usare il loro corpo e le loro menti per uccidere e distruggere e, semmai, a prepararsi spiritualmente a morire in battaglia…


[i] Cfr. U.S. Naval Forces Europe-Africa Public Affairs, “Spiritual Support Interoperability: Enhancing Spiritual Readiness across NATO” (June 13,2023) > https://www.c6f.navy.mil/Press-Room/News/Article/3426557/spiritual-support-interoperability-enhancing-spiritual-readiness-across-nato/ (trad. mia)

[ii] F. Russo, “La Nato alla sfida del Baltico, sulla Lituania l’ombra della guerra”, AGI, 15.06.2023 > https://www.agi.it/estero/news/2023-06-14/nato-esercitazioni-lituania-guerra-russia-ucraina-21825234/

[iii]Spiritual Support…”, cit.

[iv]  Ibidem

[v]  Ibidem

[vi] Ibidem

[vii] Ibidem

[viii] Ibidem

[ix] Ibidem

[x] Ibidem

[xi] Cfr., fra gli altri a firma Ermete Ferraro, i seguenti:  https://ermetespeacebook.blog/2020/01/30/pregare-per-lunita-dei-cappellani-militari/https://ermetespeacebook.blog/2020/12/07/come-barbarea-cosi-marinea/https://ermetespeacebook.blog/2020/03/15/riforma-mimetica-per-religiosi-con-le-stellette/

© 2023 Ermete Ferraro

Dall’EireneFest alla…“Eiréne” di Aristofane

Stavo tornando a Napoli dopo due giorni trascorsi alla seconda edizione del ‘festival del libro per la pace e la nonviolenza’ (Roma, 26-28 maggio) e, dovendo ingannare il tempo nell’attesa del treno, ho evitato le sbrilluccicanti gallerie dello shopping per curiosare invece tra gli scaffali della libreria della stazione Termini. Lì mi è fatalmente caduto l’occhio su un volumetto [i] il cui titolo era troppo provocante per resistervi. Si trattava infatti di una vivace traduzione, con testo greco a fronte, di “EIPHNH” (Pace), tra le meno note delle commedie di Aristofane nelle quali ricorre la tematica dell’ostilità di cittadini e contadini, di donne e uomini, alla follia omicida e devastante della guerra.

L’intonazione comico-grottesca delle sue mirabolanti storie non deve ingannarci. La verità incontrovertibile è che già due millenni e mezzo fa il teatro greco affrontava l’assurdità e bestialità della guerra, non solo mettendone in luce gli esiti catastrofici sulle condizioni economiche, sociali e familiari della gente comune, ma anche sferzando impietosamente i volgari interessi di politicanti e mercanti d’armi nel nefasto propagarsi degli eventi bellici.

Aristofane lo faceva a suo tempo e a modo suo, con la satira pungente e le battute oscene tipiche di un genere drammaturgico nato dai culti dionisiaci, in cui la guerra, apportatrice di distruzione e morte (thanatos) era presentata come l’antitesi del godimento amoroso (eros), e della pacifica esistenza di chi produce con fatica e vorrebbe godersi i frutti di quella produzione. Lo schema narrativo delle commedie aristofanee riguardanti la pace è peraltro abbastanza costante, come spiega Albini nella sua introduzione, facendo alcuni esempi.

«Negli Acarnesi, stufo della guerra, Diceopoli manda un uomo-dio a concludergli una pace personale con gli Spartani. Nella Pace, Trigeo sale al cielo su uno scarabeo stercorario per chiedere a Zeus le ragioni del conflitto in corso. Negli Uccelli, Pisetero e Euelpide, disperati per le rissosità e faziosità urbane, fondano una nuova città a mezza strada tra terra e cielo. Nella Lisistrata, sdegnate per il perdurare dello stato di belligeranza, le donne proclamano lo sciopero del sesso…» [ii].

Nella Pace è un contadino attico che compie la sua stravagante ‘missione impossibile’ ascendendo goffamente ad un Olimpo ormai evacuato dalle divinità, dove risiede provvisoriamente solo Ermes. Trigeo, infatti, vuole eroicomicamente riportare sulla terra quella Pace che il gigante Polemos (guerra) aveva recluso in una profonda caverna (allegoria dell’oscurità dell’ignoranza), ostruendone l’ingresso con pesanti massi (gli ostacoli che gli umani frappongono per non far emergere le scomode verità).  Ed è proprio Ermes a spiegargli il motivo del sorprendente esodo degli dei olimpici dalla loro abituale residenza.

«Erano furiosi contro i Greci. Nella loro vecchia sede hanno sistemato il Gigante Guerra e lo hanno autorizzato a far di voi quello che gli piaceva. Loro si sono ritirati nei quartieri alti del cielo: non volevano più vedervi combattere e sentire le vostre suppliche […] Perché vi hanno offerto più volte la pace e voi avete sempre preferito menar le mani […] Di conseguenza non so se rivedrete più la Pace […] Il Gigante Guerra l’ha gettata in fondo ad una spelonca […] e poi l’ha sbarrata con un mucchio di pietre. Così non potrete più riprendervi la Pace» [iii].

Un coro di voci invoca il ritorno della Pace

Lo scambio di battute tra Guerra ed il suo servo Kydoimos (personificazione dell’orrendo frastuono delle battaglie, della confusione e del tumulto, tipici d’ogni scontro armato) offre ad Aristofane l’occasione per puntare il dito contro i generali guerrafondai (l’ateniese Cleone e lo spartano Brasida), i ‘pestelli’ coi quali il gigante vuol “ridurre in polpettone tutte le città[iv]. Da lì parte il Coro, voce dolente di chi fa appello al comune impegno contro l’incombente minaccia di distruzione.

«Ognuno accorra subito, è in gioco la salvezza / ora o mai più, miei Greci, occorre compattezza /Abbandonate i ranghi e la rossa divisa / risplende una giornata ai generali invisa […] Estrarremo la Pace, la dea che è senza eguali / l’amica delle vigne, usando pale e pali» [v].

L’alternarsi delle battute di Trigeo con quelle del Coro sottolinea quindi la bellezza della pace ritrovata, attaccando “chi fabbricando lance e smerciando scudi desidera la guerra per guadagnare di più” ed invitando perciò gli amanti della pace “a darsi da fare”.

L’inevitabile ed eterna contrapposizione tra chi fabbrica falci e chi produce spade emerge con chiarezza, seppure nel tono comico aristofaneo, così come risulta evidente che l’interesse fraudolento di chi semina zizzania ed alimenta i conflitti bellici sarà sempre antitetico a quello di chi coltiva la terra e produce beni. Ed è sempre Ermes a rivelare che una delle abituali armi di Guerra per seminare la paura è la menzogna, la falsificazione, l’inganno. Infatti: «La città, pallida e atterrita, inghiottiva di gusto tutte le calunnie che le venivano gettate…» [vi].

Quando finalmente Trigeo – grazie alla collaborazione di altri volenterosi – riuscirà a liberare Pace dalla grotta in cui Guerra l’aveva segregata, riportandola sulla Terra, la sua riconquista sarà festeggiata da una folla osannante, che così l’implora:

«….Metti fine / a battaglie e tumulti: avrai il nome / di ‘dea che scioglie gli eserciti’ / Blocca i sottili sospetti, son fonte / di male dicerie reciproche. / Rimescola da capo / noi Greci / in un succo di amicizia, / infondi nelle menti / una più mite intesa…» [vii].

L’alternativa alla guerra psicologica di chi falsifica la realtà, semina sospetti ed eccita gli animi, rinfocolando odi e incomprensioni, allora come ora restano dunque gli sforzi per un’intesa reciproca, la mitezza della nonviolenza e la determinazione a recuperare relazioni pacifiche. Ma non è un caso che l’appellativo che Aristofane assegna alla dea Pace è Lisimaca – colei che scioglie gli eserciti, che ci libera dalle battaglie – ricordandoci anche oggi che non esiste pacifismo che non sia antimilitarismo, cioè opposizione ad un intero sistema di violenza istituzionalizzata e glorificata.

Ebbene, ora come allora – come è emerso dai numerosi incontri nel corso dell’EireneFest – ancora una volta tocca a noi liberare Pace dalla spelonca delle mistificazioni, dei sospetti e degli odi alimentati da chi invece ha interessi a nutrire il gigante Guerra. E, ora come allora, i costruttori di pace (eirenopoiòi) devono fare ricorso – insieme e convintamente – alle basi nonviolente della pace: verità, cooperazione, riconciliazione, rispetto della vita e rifiuto di ogni collaborazione con chi persegue il denaro ed il potere a costo della soppressione delle vite e della devastazione ambientale.

Dopo 2400 anni ormai avremmo dovuto capirlo…


[i] Aristofane, Pace, Introduzione e traduzione di Umberto Albini, note di Fulvio Barberis, Milano, Garzanti, 2002

[ii]  Ivi, p. viii

[iii] Ivi, pp. 15-17

[iv]  Ivi, p. 19

[v]  Ivi, pp. 21-23

[vi] Ivi, p. 41

[vii]  Ivi, p. 63


© 2023 Ermete Ferraro